Fotografia europea 2025, Inaugurazione, ph outThere_collective

Kodokushi, letteralmente morte per solitudine. Il giapponese, che è una lingua meticolosa, ha inventato una parola precisa per definire questa nuova categoria di  decessi. Anche le case dove la gente vive da sola sepolta per anni, in mezzo ai rifiuti, hanno un nome, Gomi- Yashiki, case immondizia. Sono così diffuse che ormai in Giappone c’è un tutto un mercato fiorente di ditte specializzate in “pulizie particolari”.  Sono le stesse che prima ripulivano le scene del crimine e che ora si sono riconvertite per le nuove esigenze della società. Le compagnie assicurative vendono polizze apposta per i proprietari di immobili, in caso  di morte solitaria degli  inquilini dentro questi infermi di solitudine.

Lo scorso anno in Giappone sono morte da sole nelle loro case quasi 70.000 persone, un numero enorme. Più del doppio di 10 anni fa. La quarta potenza economica al mondo e uno dei paesi più all’avanguardia del pianeta ha 70.000 fantasmi l’anno di cui si accorge solo quando non è più possibile ignorarlo.

In Giappone c’è anche un altro fenomeno ora di cui si parla molto, si chiama 50-80. Sono persone di 50 anni che non lavorano e che vivono con i genitori anziani, 80-90 anni. Persone che, quando erano giovani, a un certo punto si sono chiuse in casa e hanno tagliato i ponti con tutto e tutti: il nome di questi ex giovani che hanno smesso di vivere, anche se hanno continuato a vivere, forse lo conoscete, Hikikomori, letteralmente ritirati. Quando anche qui da noi abbiamo iniziato a conoscere la storia di questi ragazzi giapponesi che non ce la facevano più a reggere i ritmi di una società sempre più  performativa e richiedente, che aveva assimilato il peggio della nostra cultura competitiva occidentale, ragazzi che sceglievano  di non uscire più di casa e   avere solo uno  schermo digitale come unica forma di comunicazione, nessuno ci ha detto che fine hanno fatto poi quei ragazzi. Ecco, quei ragazzi poi sono cresciuti e la maggior parte di loro non ce l’ha fatta a rientrare nella vita normale, perché è molto difficile farlo quando hai interrotto tutti i tuoi contatti con l’esterno e non hai più sguardi sugli altri e pensieri per costruirti.  Adesso che sono diventati adulti e i loro genitori sono vecchi, che fine faranno questi ex ragazzi senza  nessun legame? Gli esperti in Giappone dicono  che molto probabilmente entreranno nelle statistiche delle morti per kodokushi. Moriranno soli in casa circondati da rifiuti. E i numeri continuano a salire.

I ragazzi che non escono più di casa in Giappone oggi, i futuri 50-80, sono 2 milioni e mezzo.

Parto dal  Giappone non  perché in mostra ci siano i capolavori di Daido Moryama, ma perché il Giappone è un viaggio nel futuro.  Se vogliamo avere un’idea di cosa accadrà alla nostra Generazione Zeta, e a tutti noi, dobbiamo  partire da lì. Il Giappone è un laboratorio vivente che ci mostra in anteprima dove stiamo andando, perché è sempre andata così: quello che ora  sembra non riguardarci e appartenere  a un mondo lontano da noi, un giorno sarà la nostra normalità. E  gli eventi come Fotografia Europea, che captano  quanto di più profondo c’è in giro il mondo,  ci costringono a fare connessioni e  rompere i nostri automatismi. Questa è una forma di igiene mentale perché i corti circuiti generano visioni. Noi viviamo in un’epoca di opinioni, ma a noi servono visioni.

Direte, morte per Kodokushi, Hikikomori sono casi estremi: è vero. Allora spostiamoci nella vita quotidiana della città che non dorme mai come ce la descrive in mostra Kido Mafon.  Andiamo una sera qualunque a Kabukichō, un tempo il quartiere a luci rosse più famoso del Giappone, il centro gravitazionale delle notti di Tokyo. Un labirinto di  locali , si chiamano Host Club, con affisse centinaia di foto di ragazzi e ragazze ammiccanti e  le loro tariffe.  In tutto il paese di questi professionisti dell’affetto ce ne sono 22.000.

A chiedere i loro servizi non sono  persone di una certa età o anziani soli ma ragazzi e ragazze giovani, belli, che lavorano,  che studiano, che escono di casa per andare in ufficio, all’università: vivono in mezzo a milioni di persone – Tokyo è la città metropolitana  più grande al mondo, 38 milioni di abitanti – ma  la sera  vanno a Kabukichō. E non vanno alla ricerca di corpi ma di relazioni, o meglio del loro simulacro.  Non fanno sesso in questi locali ma pagano per affittare qualcosa che assomiglia ad un amico, o un’amica, perché non sanno con chi parlare. Si indebitano per prenotare un surrogato di partner, sempre lo stesso, che dia loro l’illusione per un paio d’ore di un po’ di attenzione, che li faccia sentire importanti perché  anche una finzione va bene quando non hai mai nessuno che ti aspetta.

Tokyo ha la percentuale più alta di adulti non sposati. Più di un terzo di queste personeei non sposati, tra i 20 e i 49 anni, non ha mai avuto un appuntamento in vita sua.

Si sono così sbriciolate le relazioni, in una società in cui il valore più alto è lavorare, lavorare così tanto da morire (anche per questa morte il giapponese ha una parola, Karoshi) che a dicembre 2023 il governo di Tokyo ha stanziato 500 milioni di yen per lanciare il primo Tinder pubblico a scopo matrimonio, un app di incontri dove un’intelligenza artificiale fa lei il match perché le persone non sanno più come si fa a stare insieme. Il comune di Tokyo non lo fa per romanticismo ma perché due anni fa in Giappone il numero dei morti ha doppiato il numero dei nati. E quando questa è la proporzione, in pericolo non c’è solo l’amore e l’amicizia, ma la sopravvivenza stessa  della società.

Vi ho raccontato tutto questo perché è quello a cui ho pensato quando ho visto i lavori di Carla Hiraldo Voleau che esplora le relazioni affettive dei ragazzi italiani, l’evoluzione degli appuntamenti, l’influenza dei social. Perché se vogliamo capire qualcosa di questa Generazione Zeta è lì, dai  rapporti e da che fine fanno in questa nostra epoca, che dobbiamo scavare.

Karla Hiraldo Voleau, Giulia, Venezia 2024.

Se leggete i giornali o guardate i servizi in tv – lo so perché è il mio mestiere – vi sentirete dire solo dire dei dati. Ma i dati sono l’epifenomeno. E basta.

E’ l’arte,  in questo caso la fotografia, come diceva Luigi Ghirri nelle sue lezioni ai ventenni di tanti anni fa – che ci costringe a rallentare lo sguardo e a vedere quello che i dati non mostrano. Tutti noi ci concentriamo molto, soprattutto dal Covid come se tutto fosse iniziato in quel momento e non dieci anni prima, sul racconto di  come sta questa Generazione Zeta. E come sta? Ve lo dico con grande precisione: sta male, come mai era successo prima. L’Emilia Romagna, la sola regione in Italia a avere tutto lo storico degli accessi ai servizi neuropsichiatrici, ci dice che i disturbi d’ansia sono triplicati, che i disturbi alimentari gravi sono il 270% in più e così la depressione, la rabbia, l’aggressività, gesti di autolesionismo, i tentativi di suicidio, i suicidi. Ragazzi che si tagliano le braccia da dover essere ingessati, che ingoiano farmaci trovati in casa, che si buttano dalla finestra. E hanno anche dieci, dodici anni, poco più che bambini, l’età in cui dovrebbero essere a girare con la bicicletta e gli amici e invece sono lì a pensare come morire. I numeri di questo dolore fanno paura, sono curve esponenziali che non hanno pari nella letteratura scientifica. Stiamo parlando di un milione – un milione e mezzo di ragazzi, il 20% della popolazione evolutiva da zero a 18 anni che vive un profondo disagio, che ha bisogno di servizi psichiatrici, servizi che non ci sono perché tutto questo è scoppiato negli ultimi  anni e non eravamo pronti. Non sapevamo neanche bene che psicofarmaci dargli perché quei farmaci li avevamo sempre dati ai grandi, non ai ragazzi.

Avere 20 anni, il titolo di questo evento. Bisogna anche arrivarci a vent’anni.

Ma tutto questo, di nuovo, è solo il sintomo, a me non basta. Vi ho detto dove stiamo andando guardando Giappone, così all’avanguardia, anche nel male oscuro.  Ma io l’esigenza di capire anche perché siamo arrivati qua. In questi ultimi tempi si leggono tante spiegazioni, tutte valide, perché non ci sono risposte semplici a problemi complessi. La fine degli ideali, la perdita di autorevolezza della scuola, la fragilità di noi adulti, soprattutto di noi genitori. E’ vero. Ma io credo che ci sia  come una resistenza, una forma di rimozione collettiva da parte di tutti noi, giornalisti, studiosi, analisti a dire che  cosa è successo che ha cambiato il mondo negli ultimi 20 anni.

E’ successo che è entrato nella nostra vita un oggetto nuovo, lo smartphone,  con  tutto quello che ci passa dentro di molto più stimolante e coinvolgente della vita là fuori. Facciamo fatica a dire che tutto parte da lì non solo perché glielo abbiamo messo in mano noi quell’oggetto, ma perché siamo i primi a non volerne più fare a meno e così ci raccontiamo che poi non è tutto questo male, perché “la tecnologia dipende come la usi”, la frase feticcio della nostra epoca. Non pensiamo mai cosa significhi, per chi sta costruendo la sua identità e il suo senso di appartenenza, vivere giorno e notte dentro uno schermo: noi qualcosa nella vita reale, un qualche straccio di relazione, di interazione prima dell’arrivo di Instagram ce l’avevamo avuto, noi la nostra identità ce la siamo costruiti con i gruppetti del quartiere e gli amichetti della scuola non dentro una piattaforma con milioni di altri ragazzi e ragazze che hanno la nostra stessa fragilità. In psicanalisi si chiama “rinforzo” e così una crepa diventa un baratro e quel momento di vulnerabilità diventa chi sei. E’ così che funzionano i motori di raccomandazione, altrimenti detti algoritmi. Prendono un nostro momento di difficoltà, qualcosa che ci coinvolge emotivamente perché va a toccare punti sensibili (che ci ingaggia, con questa orribile traduzione di engagement) e lo moltiplicano all’infinito fino a che il nostro mondo diventa solo quello.

Federica Sasso, Intangibile, ph outThere_collective

Un  messaggio, due , cinque non ti fanno niente, dieci venti trenta iniziano a fare male. Mille ti uccidono.

Questo è un po’ il mondo che abbiamo inventato per la nostra generazione Zeta. Sarebbe arrivato il momento di fare qualcosa, anche se dobbiamo rinunciare alla nostra dose quotidiana di Tik Tok.

Intervento introduttivo durante l’inaugurazione di Fotografia Europea 2025: “Avere vent’anni”